Alberto Mugnaini
La grana dello sguardo
Sfogliare una pubblicazione in cui siano riprodotti dei dipinti di Paul Winstanley ci fa provare una sensazione di spiazzamento e ci pone in uno stato di sospensione e di incertezza circa la natura delle figure che ci troviamo di fronte. Le sue opere ci aprono molteplici prospettive di interpretazione e mettono in risalto tutte le ambiguità che accompagnano il nostro conflittuale rapporto con le immagini.
La sua scheda biografica ci informa che, dopo un’educazione improntata ai canoni del “Modernismo astratto”, Winstanley si è dedicato alla messa a punto di “un nuovo linguaggio visivo, combinando i principi del minimalismo con il pittoricismo della fotografia”. Che significa questa “combinazione”? Precisare che egli deriva prevalentemente le sue pitture da precedenti scatti fotografici non è sufficiente a rendere ragione di tutta la complessità e sottigliezza concettuale del suo operare. In che modo si attua questo passaggio? Che cosa si svela in queste trasposizioni?Un primo spunto per orientarci ce l’offre l’artista stesso. Nel suo libro intitolato 59 Paintings, uscito nel 2018, egli riflette intorno ai processi che investono sia l’aspetto teorico che quello pratico del suo lavoro. Prendendo in esame In the City, un olio su lino del 2011, egli cerca di focalizzare il discorso sulla differenza che intercorre tra painting e picture. Il primo termine considera preminente l’immagine e la rappresentazione; il secondo implica e sottolinea la consistenza del dipinto in quanto oggetto, caratteristica, questa, che la presenza della cornice vale a mascherare e dissimulare, separandolo concettualmente dallo spazio fisico della parete a cui si trova appeso. Ora, se è indubbio che i lavori di Wistanley si riconoscano pienamente nella qualifica di paintings, e che rifiutino l’espediente di venire incorniciati, talvolta, come nel dipinto in questione, il termine picture può accampare di nuovo i suoi diritti, in quanto può essere l’inquadratura stessa dell’immagine a surrogare il ruolo della cornice.
In ogni caso tra una fotografia e la pittura che ne può derivare non c’è un rapporto transitivo; e spesso, ci avverte l’artista, è proprio una brutta foto a costituire il punto di partenza per un soddisfacente dipinto. Ma già l’atto del fotografare deve ingegnarsi di cogliere le note salienti di un luogo: deve adoperarsi per trovare le più confacenti modalità esecutive per rendere accessibili ed eloquenti anche spazi che a prima vista si mostrano “ungraspable”, distanti, ottusi, chiusi su se stessi. Una soluzione, ad esempio, può consistere nel movimentare e rendere vibranti dei paesaggi fotografandoli dall’auto in corsa… Ma, una volta che si è realizzata e scelta una fotografia, qual è il compito che viene demandato alla pittura? L’ultima cosa che le potrebbe essere richiesta è di ripetere, ricalcare o restituire la letteralità della foto da cui prende spunto. È come se l’immagine in questione si apprestasse a subire una sorta di nuovo sviluppo, intendendo questo termine sia nel suo significato relativo al procedimento fotografico che nel senso di un nuovo e totalmente inedito raggiungimento. Compito della pittura sarà dunque attuare ciò che nella foto rimane inespresso: cogliere quel non so che che costituisce la nota distintiva di uno spazio, certe particolari peculiarità della luce, quelle qualità, insomma, che secondo le parole di Winstanley costituiscono la grandeur di un paesaggio. È il racconto del non detto di una fotografia: chissà, si tratta forse di incarnare quell’impensato che si annida nel nostro subconscio mentre guardiamo uno scatto raffigurante un interno o uno scenario naturale.Tra l’ambiente reale, oggetto (o forse pretesto?) della rappresentazione, la sua resa fotografica e la sua trasposizione pittorica si apre uno sconfinato gioco di interrelazioni, di transiti, di trasfigurazioni. Ci troviamo irretiti in un intrico di trame dello sguardo, di più sguardi: il nostro, quello dell’artista (la cui visione, nella sua duplice identità di fotografo e di pittore, si biforca e si raddoppia), e talvolta anche quello di spettatori raffigurati nel quadro, a loro volta colti spesso nell’atto di guardare altri quadri appesi alle pareti: un vertiginoso gioco di rispecchiamenti, di rimandi, di risonanze, di slittamenti di senso.
Anche il concetto di rappresentazione in questi casi si rivela inadeguato: si tratta di una pittura che non mira tanto a rappresentare qualcosa quanto a distillare l’idea della cosa rappresentata, a mettere in luce la sua più intima essenza, a incarnare la sua astratta potenzialità di definirsi come immagine irrelata, a sé stante, il suo situarsi lungo l’interfaccia di painting e di picture. E rispetto alla fotografia che ne rappresenta il punto di partenza, quello che questa pittura cerca di rendere visibile è proprio l’invisibile della fotografia. Questo senza perdere la sua consistenza, la sua articolazione luministica e cromatica, la sua impalpabile tattilità: è proprio attraverso queste qualità che la pittura ci apre una prospettiva inedita e ci introduce al suo personale discorso, articolato su più livelli.
È come se la tattilità impregnasse la nostra stessa visione, vaporizzandosi nel fruscio dello sguardo, come se il nostro stesso sguardo scoprisse in sé una consistenza meteorologica, una specie di grana.Nel passaggio dalla foto alla pittura assistiamo a una sorta di cortocicuito luministico: l’immagine prende vita attraverso questa prolungata, raddoppiata, forse triplicata esposizione alla luce: quella imprigionata dall’emulsione fotografica, ovviamente, quella restituita dai pigmenti e dalle pennellate, certo, ma dobbiamo registrare anche gli effetti di una luce non direttamente riscontrabile e di cui non rimane praticamente traccia, ma che condiziona e determina la resa luministica del dipinto: quella originata dal sistema d’illuminazione dell’atelier in cui i quadri, per sovrapposizione di strati sottilissimi, prendono lentamente vita. La qualità della luce artificiale dello studio è fondamentale per il prosieguo dello sviluppo di cui abbiamo parlato, e dovrà essere assolutamente identica alla luce naturale.Oltre alla dialettica tra picture e painting dobbiamo rilevare, nella lettura delle opere di Winstanley, anche un’altra polarità: quella tra peinture da un lato (ovvero le modalità linguistiche secondo le quali si articola la superficie pittorica, le peculiarità sintattiche della composizione) e tableau dall’altro (termine che si riferisce a quanto la scena dipinta ci racconta, ci suggerisce, ci rammemora).
Per quanto riguarda l’articolazione spaziale della peinture, assistiamo alla messa in moto di una dialettica di superfici, che dipende, preventivamente, anche dalla scelta del supporto, che può essere costituito da una tela ruvida e spessa o avere la liscia uniformità dei pannelli di legno: se questi si prestano meglio a ospitare scarne inquadrature di interni, limitate all’intersezione delle pareti tra loro e di queste con il pavimento, per cui la superficie risulta scompartita in riquadri minimali, i dipinti su tela richiamano costituzionalmente scene più movimentate e ventose, immagini catturate in corsa, o scorci di giardini e boschi che sembrano restituirci un leggero stormir di fronde, o un tremulo incresparsi di brezze e di brume.La pratica operativa di Winstanley si articola per successive sovrapposizioni di tenuissimi strati di pasta pittorica, procedimento che richiama quello di uno dei suoi grandi modelli, Vermeer. Proprio in ragione di questa lentezza procedurale nel suo studio egli conserva una sorta di “inventario-tavolozza”, centinaia di piccoli agglomerati e impasti di colori ad olio lasciati seccare e occasionalmente riutilizzati rimuovendone la crosta esteriore, come un archivio della memoria cromatica dei dipinti in fase di realizzazione.
Se gli aspetti fin qui esaminati si riferiscono alla sfera formale e concettuale dell’atto pittorico, la quale si ricollega del resto all’imprinting decisamente minimal dell’artista, ecco emergere poi tutte le implicazioni contenute nel dipinto in quanto tableau: il vissuto, la memoria, le atmosfere, tutto un silenzioso racconto di assenze, di nostalgie, di fantasmi. Gli atelier deserti, le sale d’aspetto vuote, un senso di sospensione, di attesa, di straniamento. Le presenze umane, quando si palesano nel quadro, sono figure elusive, viste spesso di spalle, talvolta svaporate nelle loro scie di movimento, quasi sempre intente a guardare qualcosa, intercettando e prolungando l’asse del nostro stesso sguardo. Oltre a questi spazi, ammobiliati, architettati secondo inevitabili moduli geometrici, troviamo poi evocati gli spazi della natura, più accidentati e frastagliati, siano essi lande o foreste di betule, torbiere o pendici montane: li percepiamo sulla tela come filtrati da una sorta di pulviscolo atmosferico; lo sguardo ora vi slitta sopra (o forse sono le immagini a slittare, a rifiutarsi di sostare), ora vi si impiglia, vi indugia, vi affonda , come se procedesse sfogliando ogni singola pellicola di pittura: come se invece di spostamenti e oscillazioni del pennello queste cortecce e questa vegetazione fossero originate da un battito d’ali di farfalla, o direttamente dal battito delle nostre palpebre.