SHORT STORY WITHOUT RETURN
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Short story without return mette in evidenza una condizione esistenziale, un loop in cui perdersi nella semplicità di una ripetizione famigliare, confortante ma senza ritorno.   
Un’azione del quotidiano come quella del pulire, del riposizionare, del mettere ordine per sentirsi meglio e in questo caso anche per sentire meglio, dato che si tratta di cotton fioc. Un codice in sequenza nel mezzo di una metafora concettuale del racconto breve e della performatività di un’esperienza corporea.
Siamo nel mezzo di una soglia, di un’esperienza che oscilla tra la semplicità dell’ascolto e la difficoltà di afferrarne la materia tanto eterea.
Queste “storie” hanno tematiche e termini che, per la loro ambiguità, si prestano tanto al mondo sonoro quanto a quello visivo, danno luogo a scene che producono silenzi, ed è come se nel costruire cose con le parole, queste aprissero la loro esistenza alla loro assenza.
Un silenzio che rende consapevoli, perché siamo nel mezzo di una finta, di una nota fantasma, di una briciola che cade a terra, di un sacrificio necessario (del soggetto) per dare corpo all’idea scenica (della trama).
L’apparente casualità con cui prende forma è una porzione oggettuale di qualcosa d’altro, uno spazio tridimensionale e performativo, un’architettura esistenziale, fragile e biografica al punto tale da lasciare nella memoria il dubbio di averne vissuto e raccontato il ritorno o di non essere ritornato affatto.
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Gianluca Codeghini
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Short story without return è una serie di opere in cotton fioc iniziata nel 1999 con la scritta Nosay. All’inizio erano parte di un’azione, parole singole scomponibili e ricomponibili, a queste sono seguite frasi brevi e micro-installazioni sempre più tridimensionali e sempre più storie prossime a perdersi in una astrazione architettonica, in un invito all’ascolto senza ritorno; quasi sempre bianche ma a volte anche nere o rosa, con segni, fuse in ottone, soggetti di scatti fotografici.
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Short story without return highlights an existential condition, a loop in which to lose oneself in the simplicity of a daily repetition, comforting but without return.   
A daily action such as cleaning, repositioning, putting things well together
in order to feel better, and in this case also to listen better, since it involves cotton buds. A code in sequence in the middle of a conceptual metaphor of the short story and the performativity of a bodily experience.
We are in the middle of a threshold, of an experience that oscillates between the simplicity of listening and the difficulty of grasping such ethereal matter.
These 'stories' have themes and terms that, due to their ambiguity, lend themselves to the world of sound as much as to the world of vision; they give rise to scenes that produce silences, and it is as if, in constructing things with words, they open up their existence to their absence.
A silence that makes us aware, because we are in the middle of a feint, of a phantom note, of a crumb that falls to the ground, of a necessary sacrifice (of the subject) to give substance to the scenic idea (of the plot).
The apparent casualness with which it takes shape is an object portion of something else, a three-dimensional and performative space, an existential architecture, fragile and biographical to the point of leaving in the memory the doubt of having lived and told the return or of not having returned at all.
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Short story without return it's a series of works made using cotton swabs that began in 1999 with the words Nosay. At the beginning they were part of an action, single words that could be broken down and put back together again, followed by short phrases and micro-installations that became increasingly three-dimensional and more and more stories that were about to get lost in an architectural abstraction, in an invitation to listen without return; almost always white but sometimes also black or pink, with signs, cast in brass, photographic shots.